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PARADOSSI DELL'OLIO D'OLIVA: il 2003 annata nera o da ricordare..


“L’annata nera dell’olio d’oliva”, Corriere della Sera, domenica 29 giugno 2003. Intervista al dott. Gianfrancesco Montedoro, direttore dell’Istituto di Scienze degli Alimenti all’Università di Perugia e presidente dell’Accademia dell’Olivo e ad alcuni produttori. Tutti d’accordo nello stimare una raccolta inferiore dal 50 all’80% rispetto all’anno precedente. La produzione si attesterà attorno ai 3 milioni di ettolitri contro i 18 della Spagna (solo pochi anni fa l’Italia ne produceva circa 7 contro i 6 della Spagna).

“Olio. Un anno da ricordare”, La Repubblica, domenica 30 novembre 2003. La raccolta è giudicata buona (variazioni comprese tra –5 e + 5%) e di alta qualità. Questi i dati riportati: la nostra produzione di 6 milioni di ettolitri è insufficiente al consumo interno pari a 7 milioni 650 mila, ne importiamo 4,7 per esportarne 3,2”.
Per capirne di più, abbiamo chiesto a Roberto Scopo, coordinatore del progetto “Olio secondo Veronelli” che da anni gira l’Italia olivicola ed ha contatto con i produttori, di commentare le contradditorie notizie dei maggiori quotidiani nazionali, sopra riportate.

I dati, ancora una volta, non parlano chiaro. Annata nera o da ricordare?
Per quanto possa apparire paradossale, gli articoli potrebbero essere entrambi veritieri. Infatti le cifre diffuse dagli enti di controllo e statistica sono solo parzialmente indicative, dacché l’80% della produzione italiana è concentrata in 4 regioni meridionali. 

Pensa che la produzione di tutta la Toscana corrisponde a quella del territorio della provincia di Bari ed equivale a circa il 3% della produzione nazionale. Per cui, se pure in 15 regioni la raccolta fosse inferiore del 60%, i dati nazionali non ne risentirebbero che d’un minimo.Non precisano inoltre quanti, di quei milioni di ettolitri, siano olio extravergine: sarebbe importante avere i volumi esatti secondo le 4 categorie codificate di olio d’oliva: extravergine, vergine, corrente e lampante. Discriminate dall’acidità che non è percettibile al palato. Quella dell’olio d’oliva lampante è superiore a 3,3 e anche per questo una volta era usato, appunto, per le lampade. Oggi la legge consente di portarlo in tavola identificandolo soltanto come olio d’oliva, dopo averlo rettificato attraverso un sistema chimico che ne abbatte l’acidità a 0,5, rendendolo totalmente incolore, poi “blendato” con un extravergine. A posteriori, stabilire se si tratti d’olio naturale o raffinato è pressoché impossibile; dunque, solo il documento accompagnatorio ne attesta la categoria.

Se non sappiamo nemmeno quanto produciamo, non credi sia poco realistico parlare di qualità?
Altre vicende del comparto agroalimentare ce l’hanno insegnato: la qualità dei prodotti è legata stretta alla tracciabilità. Anche per un’analisi realistica del mercato sarebbe necessario distribuire i dati secondo un criterio geografico. Ad oggi, solo il 4% della produzione, cioè gli oli prodotti con i marchi Dop e Igp, hanno un’origine dichiarata. A questi mi permetto di aggiungere le aziende che hanno aderito al progetto “Olio secondo Veronelli”, progetto che ha come cardine l’assoluta trasparenza e tracciabilità di ogni singola bottiglia prodotta (wwwoliosecondoveronelli.it). Nelle 15 regioni del centro e del nord la produzione è assorbita dall’autoconsumo e dal mercato locale. E’ sperabile si tratti di extravergine. Sarebbe comunque il 20% dell’olio italiano.

E’ evidente: qualcuno non ha interesse a queste precisazioni sui consuntivi di produzione…
Tempo fa la trasmissione Report ha evidenziato come il mercato sia controllato da pochi marchi (imbottigliatori non produttori) liberi di acquistare olio in tutto il mondo, imbottigliarlo in Italia e poi esportarlo senza alcun obbligo di dichiarazione, poiché per l’olio non è d’obbligo la tracciabilità. Conseguenza: nell’arco di una decina d’anni, padronanza assoluta del mercato e dei prezzi. Peggio: i nostri olivicoltori – sono circa 1 milione in Italia i possessori di uliveti – non hanno adeguato reddito dalla produzione d’olio e si vedono costretti ad accettare contributi europei (ancor più in annate difficili come le ultime) elargiti – assurdo – in proporzione ai litri prodotti, documentabili con una bolletta rilasciata dal frantoiano.

Spingere l’olivicoltore a produrre di più è una mossa astuta per appiattire le differenze organolettiche e qualitative. Chi ci guadagna?
Gli stessi commercianti e i grandi marchi imbottigliatori che, soprattutto al sud, monopolizzano il mercato costringendo gli olivicoltori, privi di propri canali di vendita, a conferire gli oli dietro compensi irrisori. La remunerazione tra un olio extravergine – dalle olive raccolte anche a mano, pianta per pianta - ed uno lampante – finiscono in frantoio olive prese da terra, in condizioni disastrose – si differenzia di un solo euro.
Gli olivicoltori calabri, ad esempio, con potenzialità qualitative altissime, sono costretti da queste leggi inique a produrre circa il 70% d’olio lampante.

E’ possibile ridare dignità ad un comparto così importante non solo per la nostra economia, per la nostra storia e cultura?
Basterebbero poche regole: una legge che obblighi a etichette chiare e veritiere, in cui sia chiaro chi lo produce, dove e in che anno. In questo modo il consumatore saprebbe se si tratta di olio naturale o rettificato.
La tracciabilità è la soluzione per riconoscere e farsi riconoscere dal mercato, come sta avvenendo per diversi prodotti alimentari.

FONTE: http://www.oliosecondoveronelli.it

 

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