Pensa che la produzione di
tutta la Toscana corrisponde a quella del territorio della provincia di Bari ed
equivale a circa il 3% della produzione nazionale. Per cui, se pure in 15
regioni la raccolta fosse inferiore del 60%, i dati nazionali non ne
risentirebbero che d’un minimo.Non precisano inoltre quanti, di quei milioni
di ettolitri, siano olio extravergine: sarebbe importante avere i volumi esatti
secondo le 4 categorie codificate di olio d’oliva: extravergine, vergine,
corrente e lampante. Discriminate dall’acidità che non è percettibile al
palato. Quella dell’olio d’oliva lampante è superiore a 3,3 e anche per
questo una volta era usato, appunto, per le lampade. Oggi la legge consente di
portarlo in tavola identificandolo soltanto come olio d’oliva, dopo averlo
rettificato attraverso un sistema chimico che ne abbatte l’acidità a 0,5,
rendendolo totalmente incolore, poi “blendato” con un extravergine. A
posteriori, stabilire se si tratti d’olio naturale o raffinato è pressoché
impossibile; dunque, solo il documento accompagnatorio ne attesta la categoria.
Se non sappiamo nemmeno quanto
produciamo, non credi sia poco realistico parlare di qualità?
Altre vicende del comparto agroalimentare ce l’hanno insegnato: la qualità
dei prodotti è legata stretta alla tracciabilità. Anche per un’analisi
realistica del mercato sarebbe necessario distribuire i dati secondo un criterio
geografico. Ad oggi, solo il 4% della produzione, cioè gli oli prodotti con i
marchi Dop e Igp, hanno un’origine dichiarata. A questi mi permetto di
aggiungere le aziende che hanno aderito al progetto “Olio secondo Veronelli”,
progetto che ha come cardine l’assoluta trasparenza e tracciabilità di ogni
singola bottiglia prodotta (wwwoliosecondoveronelli.it). Nelle 15 regioni del
centro e del nord la produzione è assorbita dall’autoconsumo e dal mercato
locale. E’ sperabile si tratti di extravergine. Sarebbe comunque il 20%
dell’olio italiano.
E’ evidente: qualcuno non ha interesse a queste precisazioni sui consuntivi
di produzione…
Tempo fa la trasmissione Report ha evidenziato come il mercato sia controllato
da pochi marchi (imbottigliatori non produttori) liberi di acquistare olio in
tutto il mondo, imbottigliarlo in Italia e poi esportarlo senza alcun obbligo di
dichiarazione, poiché per l’olio non è d’obbligo la tracciabilità.
Conseguenza: nell’arco di una decina d’anni, padronanza assoluta del mercato
e dei prezzi. Peggio: i nostri olivicoltori – sono circa 1 milione in Italia i
possessori di uliveti – non hanno adeguato reddito dalla produzione d’olio e
si vedono costretti ad accettare contributi europei (ancor più in annate
difficili come le ultime) elargiti – assurdo – in proporzione ai litri
prodotti, documentabili con una bolletta rilasciata dal frantoiano.
Spingere l’olivicoltore a produrre di più è una mossa astuta per
appiattire le differenze organolettiche e qualitative. Chi ci guadagna?
Gli stessi commercianti e i grandi marchi imbottigliatori che, soprattutto al
sud, monopolizzano il mercato costringendo gli olivicoltori, privi di propri
canali di vendita, a conferire gli oli dietro compensi irrisori. La
remunerazione tra un olio extravergine – dalle olive raccolte anche a mano,
pianta per pianta - ed uno lampante – finiscono in frantoio olive prese da
terra, in condizioni disastrose – si differenzia di un solo euro.
Gli olivicoltori calabri, ad esempio, con potenzialità qualitative altissime,
sono costretti da queste leggi inique a produrre circa il 70% d’olio lampante.
E’ possibile ridare dignità ad un comparto così importante non solo per
la nostra economia, per la nostra storia e cultura?
Basterebbero poche regole: una legge che obblighi a etichette chiare e
veritiere, in cui sia chiaro chi lo produce, dove e in che anno. In questo modo
il consumatore saprebbe se si tratta di olio naturale o rettificato.
La tracciabilità è la soluzione per riconoscere e farsi riconoscere dal
mercato, come sta avvenendo per diversi prodotti alimentari.
FONTE: http://www.oliosecondoveronelli.it
Homepage
Pagina Principale
|